Il visto per lavoro autonomo consente l’ingresso in Italia allo straniero che intenda esercitare un’attività lavorativa a carattere non subordinato, o costituire una società di capitali o di persone, o accendere a cariche societari ai sensi dell’articolo 26 del Testo Unico sull’Immigrazione.
I visti di ingresso e i relativi titoli di soggiorno sono rilasciati entro il limite delle quote precedentemente fissate dal Governo.
Tale autorizzazione viene rilasciata a condizione che l’attività da svolgere non sia riservata dalla legge ai cittadini italiani.
I requisiti e le condizioni per l’ottenimento del visto sono previsti dall’articolo 26 del Testo Unico n. 286/1998, e dall’articolo 39 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 394/1999.
Il richiedente deve quindi dimostrare:
Lo straniero che intende svolgere in Italia attività per le quali è richiesto il possesso di una autorizzazione o licenza o l’iscrizione in apposito registro o albo, ovvero la presentazione di una dichiarazione o denuncia, ed ogni altro adempimento amministrativo, è tenuto a richiedere alla competente autorità amministrativa, anche tramite proprio procuratore, la dichiarazione che non sussistono motivi che impediscono il rilascio del titolo abilitativo o autorizzatorio.
La dichiarazione è rilasciata quando sono soddisfatte tutte le condizioni e i presupposti previsti dalla legge per la concessione del titolo abilitativo o autorizzatorio richiesto.
Il cittadino extracomunitario, anche per le attività per le quali non è previsto il rilascio di alcun titolo abilitativo o autorizzatorio, è tenuto ad acquisire presso la Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura competente in relazione al luogo in cui l’attività lavorativa autonoma deve essere svolta, o presso il competente ordine professionale, l’attestazione dei parametri di riferimento riguardanti la disponibilità delle risorse finanziarie occorrenti per l’esercizio dell’attività.
Tali parametri si fondano sulla disponibilità da parte del richiedente, di una somma non inferiore alla capitalizzazione, su base annua, di un importo mensile pari all’assegno sociale.
La dichiarazione e l’attestazione di cui sopra sono rilasciate, ove richieste, a stranieri che intendano operare come soci prestatori d’opera presso società, anche cooperative, costituite da almeno tre anni.
La dichiarazione di cui si è detto, unitamente a copia della domanda e della documentazione prodotta per il suo rilascio, nonché l’attestazione della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura devono essere presentate, anche tramite procuratore, alla Questura territorialmente competente.
La Questura provvederà ad apporre sulla dichiarazione il nullaosta provvisorio ai fini dell’ingresso.
Il nullaosta provvisorio viene rilasciato, dopo aver verificato che non sussistano, nei confronti dello straniero, motivi ostativi all’ingresso e al soggiorno nel territorio dello Stato per motivi di lavoro autonomo.
La dichiarazione provvista del nullaosta è rilasciata all’interessato o al suo procuratore.
Per le attività autonome di consulenza o con contratto di collaborazione, per le quali non è disposta alcuna iscrizione nel registro delle impresse, e che non richiedono licenze o autorizzazioni, iscrizioni ad albi o registri professionali
– per cui non è identificabile l’autorità amministrativa competente alla concessione della dichiarazione e dell’attestazione –
occorre che i cittadini stranieri presentino la seguente documentazione:
In tutti i casi sopra elencati, il cittadino straniero deve, altresì, dimostrare di disporre di un alloggio idoneo.
La dichiarazione, l’attestazione ed il nullaosta devono essere presentati dallo straniero alla Rappresentanza diplomatica o consolare competente per il rilascio del visto di ingresso, entro tre mesi dalla data del rispettivo rilascio.
Il visto viene rilasciato entro 120 giorni dalla richiesta (art. 26, comma 7 del Testo Unico).
L’Ambasciata provvederà entro tale termine a verificare:[fancy_list]
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Il visto deve essere utilizzato entro 180 giorni dal rilascio.
Avverso il diniego di visto per lavoro autonomo può essere presentato ricorso giurisdizionale innanzi al TAR Lazio, entro 60 giorni dalla notifica del provvedimento.
Giurisprudenza (massime):
Nei procedimenti ad istanza di parte è previsto un onere partecipativo: il responsabile del procedimento, infatti, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, deve comunicare tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all'accoglimento della domanda.
La mancanza di tale formalità procedimentale comporta l'illegittimità del procedimento.
Tribunale Amministrativo Regionale Lazio - Roma, Sezione 3 ter
Sentenza 1 aprile 2014, n. 3551
E’ illegittima la reiezione della richiesta di visto per lavoro autonomo presentata dallo straniero adottata in violazione dell’art. 10 bis, L. n. 241 del 1990.
Nella fattispecie, invero, deve intendersi configurabile un procedimento ad istanza di parte conseguente alla presentazione, da parte dell’interessato, della richiesta di visto d’ingresso per lavoro autonomo, tale che la mancanza della predetta formalità procedimentale comporta l’illegittimità del diniego di visto costituente atto finale del procedimento.
Tribunale Amministrativo Regionale Lazio - Roma, Sezione 3 ter
Sentenza 12 marzo 2014, n. 2786
In ordine all'obbligo di motivazione dei dinieghi di visto, dal quale l'Amministrazione è esonerata solo per motivi di sicurezza e di ordine pubblico, la ratio della disposizione introdotta nel secondo comma dell'art. 4 del Testo Unico dal d.lgs. 30 luglio 2002, n. 189, è costituita dalla tutela di valori quali la sicurezza e l'ordine pubblico, che però cedono dinanzi ai casi particolari previsti dagli articoli 22, 24, 26, 27, 28, 29, 36 e 39 del Testo Unico (lavoro subordinato a tempo determinato ed indeterminato, lavoro stagionale, lavoro autonomo, ripristino dell'unità familiare, cure mediche ed accesso agli studi universitari) in esso richiamati e la cui elencazione, destinata a disciplinare l'obbligo di motivazione anche per ragioni di sicurezza ed ordine pubblico nei particolari casi da esse disciplinati è da considerarsi tassativa.
Tribunale Amministrativo Regionale LAZIO - Roma, Sezione 1 quater
Sentenza 24 gennaio 2011, n. 699
E' annullabile il provvedimento con il quale il consolato generale d'Italia rigetti la domanda di visto presentata dal ricorrente per l'ingresso in Italia per lavoro autonomo, motivato in base al decreto interministeriale n. 850 del 2011 che non consente il rilascio del visto nei riguardi del socio amministratore di una s.n.c., ruolo rivestito nel caso di specie dal ricorrente, ma solo nei riguardi di stranieri facenti parte di società italiane ove rivestano il ruolo di presidente, membro del CdA, amministratore delegato e revisore dei conti, limitatamente alle società di capitali.
Tuttavia, ritenuto che la norma di rango superiore, contenuta nell'art. 26 del D.Lgs. n. 286 del 1998 riconosce allo straniero la possibilità di esercitare in Italia un'attività industriale, professionale, artigiana o commerciale o costituire società di capitali o di persone, previa dimostrazione del possesso delle risorse adeguate per l'esercizio dell'attività che intende intraprendere, senza ulteriori limitazioni, non rinvenendosi in nessun'altra norma di rango superiore al D.M. il diniego opposto dall'Amministrazione, ne discende l'annullamento dell'atto impugnato
Tribunale Amministrativo Regionale Lazio - Roma, Sezione 3 ter
Sentenza 29 gennaio 2014, n. 1119
Per poter far ingresso in Italia, lo straniero deve dimostrare di essere in possesso di idonea documentazione atta a confermare lo scopo e le condizioni del soggiorno, nonché la disponibilità di mezzi di sussistenza sufficienti per la durata del soggiorno e, fatta eccezione per i permessi di soggiorno per motivi di lavoro, anche per il ritorno nel Paese di provenienza (art. 4, comma 3, Testo Unico Immigrazione).
In attuazione di tale norma, il Ministero dell’Interno ha emanato, in data 1/3/2000, la Direttiva sulla definizione dei mezzi di sussistenza per l’ingresso ed il soggiorno degli stranieri nel territorio dello Stato.
La predetta Direttiva stabilisce che la disponibilità dei mezzi finanziari possa essere dimostrata, dal cittadino straniero, mediante l’esibizione di denaro contante, di fideiussioni bancarie, di polizze fideiussorie, di equivalenti titoli di credito, di titoli di servizi prepagati o di atti comprovanti la disponibilità in Italia di fonti di reddito.
Salvo che le norme dispongano diversamente, lo straniero deve indicare poi l’esistenza di un idoneo alloggio nel Territorio Nazionale e la disponibilità della somma occorrente per il rimpatrio, comprovabile questa anche con l’esibizione del biglietto di ritorno.
In caso di ingresso per motivi di lavoro subordinato, la proposta di contratto di soggiorno formulata dal datore di lavoro sostituisce la dimostrazione da parte dello straniero della disponibilità dei mezzi di sussistenza.
In tal caso, quindi, il permesso di soggiorno verrà rilasciato sul presupposto dell’assunzione.
La disponibilità dei predetti mezzi di sussistenza dev’essere, invece, documentata in sede di rinnovo (art. 5, comma 5, Testo Unico Immigrazione).
Ai sensi dell’art. 13 comma 2 del D.P.R. 394/99, al momento del rinnovo del permesso di soggiorno, il cittadino extracomunitario deve presentare documenti che attestino la disponibilità di un reddito sufficiente al proprio sostentamento ed eventualmente a quello della famiglia.
In giurisprudenza si è ormai consolidato un orientamento secondo il quale le Questure non devono formulare una valutazione automatica delle risorse sufficienti legata ai parametri previsti dall’importo annuo dell’assegno sociale, dovendo invece considerare la storia lavorativa pregressa dell’interessato e la prospettiva di lavoro futura.
Il preteso automatismo del diniego di rinnovo del permesso di soggiorno in mancanza di lavoro trova smentita anche in relazione a situazioni che non sono imputabili al lavoratore extracomunitario, come in caso di malattia o infortunio prolungati.
L’art.8, co.1, della Convenzione O.I.L. n.97 del 1949 impedisce il rinvio nel paese di provenienza in caso di sopravvenuta impossibilità di lavorare causata da malattia o infortunio.
Si possono ritenere utili al rinnovo del permesso di soggiorno anche i redditi da lavoro nero.
Ancora, ai fini della dimostrazione del requisito reddituale, deve tenersi conto del reddito percepito dall’intero nucleo familiare:
in tal senso si è, di recente, espresso il Tar Friuli Venezia Giulia, con sentenza n. 206, del 13 maggio 2014, annullando il provvedimento di diniego di rinnovo del permesso di soggiorno emesso della Questura di Pordenone, per non aver considerato la circostanza che l’interessata poteva contare anche sul reddito della sorella convivente.
Inoltre, ai sensi dell’art. 5, comma 5 , secondo periodo, del Testo unico sull’Immigrazione, come modificato dal d.,lgs. n. 5 del 2007, e successivamente dall'articolo 1, comma 22, lettera d), della legge 15 luglio 2009, n. 94,
qualora si tratti di uno straniero che è entrato in Italia a seguito di ricongiungimento familiare,
deve tenersi conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato e dell'esistenza di legami familiari e sociali con il suo Paese d'origine, nonché, per lo straniero già presente sul territorio nazionale, anche della durata del suo soggiorno nel medesimo territorio nazionale:
si ricorda che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 22 del 18 luglio 2013, ha esteso tale tutela rafforzata anche allo straniero che, pur non avendo formalmente esercitato il diritto di ricongiungimento familiare, si trovi nelle condizioni fattuali per esercitarlo.
“In sostanza, la norma impone alla amministrazione di effettuare una approfondita valutazione circa l’inserimento dello straniero nel nostro Paese e la effettività dei suoi vincoli familiari (cfr. ex multis Consiglio Stato, sez. VI, 16 febbraio 2011 , n. 995)” (TAR Lazio, Sezione Seconda Quater, sent. 17 gennaio 2012, n. 531).
L' acquisto della cittadinanza italiana è disciplinato dalla legge n. 91/1992 e dal relativo regolamento di attuazione, D.P.R. 572/1993.
Le possibilità previste dal legislatore per l'acquisto della cittadinanza italiana sono le seguenti:
1) cittadinanza per discendenza da ex cittadini italiani:
la fattispecie riguarda lo straniero del quale il padre o la madre oppure uno dei nonni sono stati cittadini italiani per nascita;
2) cittadinanza per beneficio di legge per nascita in Italia:
la possibilità riguarda lo straniero, nato in Italia e residente in Italia fino alla maggiore età, che dichiari entro il diciannovesimo anno di età di voler diventare cittadino italiano;
3) cittadinanza per matrimonio con cittadino italiano:
il coniuge straniero può acquistare la cittadinanza italiana quando risiede legalmente in Italia da almeno sei mesi ovvero dopo tre anni, se celebrato all'estero, dalla data del matrimonio;
4) cittadinanza per naturalizzazione ordinaria:
5) cittadinanza per iuris communicatio: i figli minori di chi acquista la cittadinanza italiana diventano cittadini italiani, ma una volta maggiorenni possono rinunciarvi se in possesso di un'altra cittadinanza.
Ai sensi dell'articolo 5 della legge 91/1992, il cittadino straniero può acquistare la cittadinanza italiana a seguito di matrimonio, quando risieda legalmente in Italia da almeno sei mesi, oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio, sempre che non vi sia stato scioglimento, annullamento o cessazione degli effetti civili e se non sussiste separazione legale.
La cittadinanza si acquista con decreto del Ministro dell'Interno, su domanda presentata al Prefetto competente per territorio in relazione alla residenza dell'interessato ovvero, qualora ne ricorrano i presupposti, all'autorità consolare (articolo 7 legge 91/1992 e articolo 1 del D.P.R. 18 aprile 1994 n. 362).
Il ministro può denegare la concessione della cittadinanza quando sussista una «condanna» per uno dei delitti contro la personalità dello Stato previsti nel libro secondo, titolo I, capi I, II, III del codice penale (articolo 6 comma 1, lettera a, della legge 91/1992), ovvero per un delitto non colposo per il quale la legge preveda una pena edittale non inferiore nel massimo a tre anni di reclusione, o ancora, in caso di condanna per un reato non politico a una pena detentiva superiore a un anno, in forza di una sentenza pronunciata all'estero e riconosciuta in Italia, (articolo 6, comma 1, lettera b), o infine, per la sussistenza nel caso specifico di comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica.
Quando il provvedimento di diniego della cittadinanza si fonda sull'insussistenza degli elementi positivi di cui all'articolo 5, ovvero sulla sussistenza di una condanna penale, la posizione del richiedente si struttura in termini di diritto soggettivo, tutelabile dinanzi all'autorità giudiziaria ordinaria.
In tal caso, infatti, l’ attività esercitata dall’autorità amministrativa riveste natura vincolata.
Quando, invece, il diniego di concessione sia fondato sui motivi di sicurezza da ultimo citati, la posizione del richiedente degrada a interesse legittimo.
In tal caso, viene esclusa la sindacabilità di tali motivi ad opera del giudice ordinario.
Il relativo ricorso deve essere presentato dinanzi al TAR.
Giurisprudenza: (massime)
Nel caso dell'acquisizione della cittadinanza per matrimonio, disciplinata dall'art. 5 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, deve ritenersi che il coniuge del cittadino sia titolare - in generale – di un vero e proprio diritto soggettivo all'emanazione del decreto, che affievolisce ad interesse legittimo solo in presenza dell'esercizio, da parte della Pubblica Amministrazione, del potere discrezionale di valutare l'esistenza di motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica che ostino a detto acquisto.
Tribunale Amministrativo Regionale LAZIO - Roma, Sezione 2 quater
Sentenza 7 novembre 2012, n. 9146
Nel caso dell’acquisizione della cittadinanza per matrimonio, l' unica causa preclusiva alla concessione della cittadinanza demandata alla valutazione discrezionale della competente amministrazione è quella di cui all'art. 6, comma 1, lett. c, della legge n. 91 del 1992, ossia la sussistenza, nel caso specifico, di "comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica”.
Tribunale Amministrativo Regionale LAZIO - Roma, Sezione 2 quater
Sentenza 21 febbraio 2011, n. 1603
La concessione della cittadinanza per matrimonio, disciplinata dall'art. 5 della legge n. 91 del 1992, attiene ad una situazione giuridica soggettiva avente la consistenza di diritto soggettivo.
In tale ambito, l'unica causa preclusiva alla concessione della cittadinanza, che risulta essere demandata alla valutazione discrezionale della competente amministrazione, è quella di cui all'art. 6, comma 1, lett. c, della legge n. 91 del 1992, ossia la sussistenza, nel caso specifico, di "comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica". Soltanto in tale evenienza, la citata situazione di diritto soggettivo risulta affievolita in interesse legittimo, con conseguente radicamento della giurisdizione in capo al giudice amministrativo. Le altre cause preclusive, invece, non richiedendo alcuna valutazione discrezionale da parte dell'amministrazione, determinano il mantenimento della giurisdizione in capo al giudice ordinario.Tribunale Amministrativo Regionale LAZIO - Roma, Sezione 2 quater
Sentenza 3 maggio 2011, n. 3788
Nella ricorrenza dei presupposti di cui all'art. 5, L. 5 febbraio 1992, n. 91, l'acquisto della cittadinanza italiana costituisce un diritto soggettivo che, come tale, deve essere azionato necessariamente davanti all'autorità giudiziaria ordinaria e non già innanzi a quella amministrativa.
Nella specie in considerazione, il Ministero convenuto, pur non negando la tardività dell'emissione del provvedimento di diniego (dichiarando di averlo realmente emesso oltre il termine perentorio di due anni dalla presentazione dell'istanza) eccepisce il difetto di giurisdizione del giudice ordinario in favore di quello amministrativo.Tale eccezione, sulla base del principio appena espresso, deve essere rigettata ed il ricorrente va dichiarato cittadino italiano.
Tribunale Genova, Sezione 10 civile
Sentenza 29 novembre 2012, n. 3903
Nel caso di acquisto della cittadinanza per matrimonio con un cittadino italiano, l'art. 8 comma 2, L. 5/2/1992 n. 91, assegna alla competente autorità amministrativa un termine perentorio di due anni per pronunciarsi sulla relativa istanza, con la precisazione che, una volta decorso tale termine, resta preclusa all'Amministrazione l'emanazione del decreto di rigetto della domanda di cittadinanza, venendo ad operare una sorta di silenzio assenso sulla relativa istanza dello straniero coniugato con un cittadino italiano, atteso che per effetto dell'inutile decorso del termine suddetto l'Amministrazione perde il potere di negare la cittadinanza.
Ne deriva che il diritto soggettivo del coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano, affievolisce ad interesse legittimo solo in presenza dell'esercizio da parte della pubblica Amministrazione del potere discrezionale di valutare l'esistenza dei motivi preclusivi, di cui all'art. 6, L. 5/2/1992 n. 91, nel termine assegnato; una volta precluso l'esercizio di tale potere per mancato rispetto del termine sussiste, pertanto, il diritto soggettivo all'emanazione dell'atto di concessione della cittadinanza che il soggetto interessato può far valere davanti al giudice ordinario.Tribunale Amministrativo Regionale MARCHE - Ancona
Sentenza 10 ottobre 2008, n. 1550
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Gli stranieri che intendono soggiornare in Italia per più di tre mesi devono inoltrare alla Questura competente per territorio (vige il criterio della residenza) la richiesta di permesso di soggiorno, utilizzando un apposito kit, tramite ufficio postale. Per maggiori informazioni inerenti alla procedura clicca qui.
Gli effetti della condanna penale sulla possibilità di soggiornare in Italia variano a seconda della condizione in cui versa lo straniero.
Nell’ipotesi di primo ingresso, ai fini del rilascio del permesso di soggiorno,
il diniego è un atto dovuto e vincolato, nel caso in cui lo straniero sia stato condannato, anche a seguito di patteggiamento, per reati particolarmente gravi.
Tali reati sono quelli previsti dall’articolo 380, commi 1 e 2, del codice di procedura penale ovvero reati inerenti:
In questo caso non è richiesta, né consentita alcuna valutazione discrezionale (art. 4, comma 3, Testo Unico Immigrazione).
Tuttavia, se l’ingresso è motivato da richiesta di ricongiungimento familiare, il diniego del permesso dev’essere supportato da una valutazione di pericolosità sociale, in quanto risulti che lo straniero rappresenti una minaccia concreta ed attuale per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi aderenti all’accordo Shengen (art. 4, comma 3 Testo Unico Immigrazione).
Nell’ipotesi di rinnovo del permesso di soggiorno: il diniego di rinnovo (o la revoca del permesso già rilasciato) è disposto quando mancano o vengono a mancare i requisiti per l’ingresso…(art. 5 comma 5, Testo Unico Immigrazione).
Quindi, sotto il profilo penalistico, rilevano i medesimi reati sopra indicati.
Tuttavia, nel caso in cui lo straniero abbia esercitato il diritto al ricongiungimento familiare ovvero si tratti del familiare ricongiunto, la condanna non è automaticamente ostativa.
In tal caso, infatti, la Questura è tenuta a valutare la pericolosità sociale concreta ed attuale del richiedente, effettuando la doverosa ponderazione fra la tipologia di reato commesso ed una serie di altri elementi indicati dal legislatore (natura ed effettività dei vincoli familiari dell’interessato, esistenza di legami familiari e sociali con il suo Paese d’origine, nonché per lo straniero già presente sul territorio nazionale, anche la durata del suo soggiorno nel medesimo territorio nazionale) (art. 5, comma 5, testo Unico Immigrazione).
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 202 del 18 luglio 2013, ha esteso la predetta tutela a tutte le ipotesi in cui lo straniero, pur non avendo esercitato formalmente il diritto al ricongiungimento familiare o non essendo familiare ricongiunto, si trovi nelle condizioni fattuali per esercitarlo.
La Corte, infatti, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 5, citato, nella parte in cui prevede che la valutazione discrezionale in esso stabilita si applichi solo allo straniero che
ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare o al familiare ricongiunto, e non anche allo straniero che abbia legami familiari nel territorio dello Stato;
Al riguardo, la Corte evidenzia come la tutela della famiglia e dei minori assicurata dalla Costituzione implichi che ogni decisione sul rilascio o sul rinnovo del permesso di soggiorno di chi abbia legami familiari in Italia debba fondarsi su una attenta ponderazione della pericolosità concreta ed attuale dello straniero condannato, senza che il permesso di soggiorno possa essere negato automaticamente, in forza del solo rilievo della condanna per determinati reati.
Nell’ambito delle relazioni interpersonali, infatti, ogni decisione che colpisce uno dei soggetti finisce per ripercuotersi anche sugli altri componenti della famiglia ed il distacco dal nucleo familiare, specie in presenza di figli minori, è decisione troppo grave perché sia rimessa in forma generalizzata ed automatica a presunzioni di pericolosità assolute, stabilite con legge, e ad automatismi procedurali, senza lasciare spazio ad un circostanziato esame della situazione particolare dello straniero interessato e dei suoi familiari.
In questo senso, la disposizione di cui all’art. 5, comma 5, d.lgs. n. 286 del 1998 contrasta con gli artt. 2, 3, 29, 30 e 31 Cost.
Ad analoghe considerazioni, rileva la Corte, conduce anche l’esame dell’art. 8 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali dell’Individuo, come applicato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
La Corte di Strasburgo ha, infatti, sempre affermato che la CEDU non garantisce allo straniero il diritto di entrare o risiedere in un determinato Paese, ragion per cui gli Stati mantengono il potere di espellere gli stranieri condannati per reati puniti con pena detentiva.
Tuttavia, quando nel Paese dove lo straniero intende soggiornare vivono i membri stretti della sua famiglia, occorre bilanciare in modo proporzionato il diritto alla vita familiare del richiedente e dei suoi congiunti con il bene giuridico della pubblica sicurezza e con l’esigenza di prevenire minacce all’ordine pubblico, ai sensi dell’art. 8, paragrafo 1, della CEDU.
Tale necessità di attenta ponderazione implica, secondo la Corte europea , la valutazione di una serie di elementi, quali, ad esempio
Una simile attenzione alla situazione concreta dello straniero e dei suoi congiunti, garantita dall’art. 8 della CEDU, come applicato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, esprime, dunque, un livello di tutela dei rapporti familiari equivalente alla protezione accordata alla famiglia nel nostro ordinamento costituzionale.